TIMBERLAND
Ricordo bene il mio primo incontro con Timberland.
Ero un bambino e, come tutti i bambini negli anni ottanta a Milano, andavo all’oratorio della Chiesa di zona che era il punto nevralgico per la conoscenza e la diffusione di qualunque tipo di moda.
All’epoca andavano forte i Paninari che avevano adottato nella loro divisa ufficiale le Timberland, fino ad allora viste come scarpe da lavoro o da barca, e averne un paio voleva dire essere al centro dell’attenzione.
Mia madre neo laureata in architettura, nonostante le sue riserve sulla moda in genere e il suo piglio intellettuale, non riuscì a resistere e comprò un paio di 2-eyes, con la scusa morale che fossero scarpe “estremamente resistenti”. La sua sfortuna fù che in quel periodo avevo esattamente il suo numero (avrò avuto 7/8 anni) e fin da allora, nonostante gli insegnamenti marxisti in vigore in casa mia, ero terribilmente attratto dall’effimero mondo della moda. Così rapii il nuovo acquisto di mia mamma e ci feci un giro all’oratorio, dove scoprii quanto fosse forte l’effetto dell’hype (anche se allora non si chiamava così) sui miei coetanei e quanto lo used look, dato dall’utilizzo delle suddette Timberland per giocarci a calcio sull’asfalto, non fosse particolarmente apprezzato dalla mia cara e giovane genitrice.
Gli anni sono passati, ma l’immagine che avevo dentro di me del brand Timberland non è mai cambiata e, appena ho avuto la possibilità di fare shopping da solo, le varie versioni delle Boat Shoes e dei Boot sono passate ai miei piedi abbastanza frequentemente.
Nell’arco della mia vita ho accumulato diverse storie personali e leggende legate al brand: dalla street tale secondo cui Phase 2, una volta arrivato a Milano in un inverno degli anni ’90, si rese conto che il clima invernale meneghino non era proprio il mite clima italico immaginato negli Stati Uniti pre internet, si fece accompagnare immediatamente a comprare un paio di boot gialli, all’enorme dissidio interiore che ho vissuto pochi mesi fa, quando a malincuore, ho dovuto abbandonare un paio di 3-eyes estive che avevo comprato appositamente per il mio esame orale di terza media.
Tanti aspetti del brand mi hanno sempre attirato: il connubio tra il design della tomaia e l’utilizzo della suola Vibram, altro elemento distintivo. Il fatto poi che nascano come scarpe da lavoro, che abbiano uno scopo al di fuori da quello estetico, mi ha sempre portato ad apprezzarle perché rispecchia la mia idea di moda, più legata al design che all’estetica pura, un giusto compromesso tra elementi utili ed elementi esteticamente appaganti. Timberland condivide questa visione del mondo: una vita attiva e costruttiva, il giusto connubio tra estetica, funzionalità e resistenza. Trovo uno stretto legame tra questo concetto e Odd Garden, la concretezza e la costanza che si uniscono per creare qualcosa di bello e duraturo.
Anche per questo motivo, mi trovo estremamente a mio agio a vestire capi Timberland in ogni situazione, sia lavorativa che di totale svago.
E’ questo heritage ad affascinare milioni di persone che vestono Timberland in tutto il mondo: da artisti a taglialegna, dalle foreste dell’Alaska agli aperitivi a Cortina, dai cantieri alle dancehall, l’albero inscritto in un cerchio è diffuso ovunque. Per questo motivo molti brand, capendone il valore intrinseco, collaborano con Timberland per creare pezzi da sold out immediato, come è capitato nell’ultima collaborazione con Supreme NY che ha lanciato a dicembre una mini collezione di abbigliamento, accessori e calzature o l’inclusione di un Boot rosa limited nel Gift Box natalizio 2016 di Kith.
Ph. Stella Bortoli: http://www.stellabortoli.com/